30.11.15

Vivian Maier. Una fotografa ritrovata (2015-2016)

È ARRIVATA A Milano la selezione delle foto di Vivian Maier, la babysitter fotografa sconosciuta per tutta la sua vita che, da pochissimi anni, sta godendo di notevole fortuna postuma.

Nella mostra allo Spazio Forma Meravigli ci sono 120 scatti in bianco e nero presi fra gli anni cinquanta e sessanta assieme ad alcune (poche) foto a colori (a occhio, Ektachrome) scattate negli anni settanta, più un paio di filmati in super 8 che durano circa quindici minuti. È una goccia nel mare dei 150mila rullini, soprattutto Tri-X bianco e nero, sviluppati solo in parte che la donna aveva accumulato in una vita di scatti (prevalentemente tra Chicago e New York, ma anche in altre parti degli Stati Uniti e del mondo, durante vacanze e viaggi vari) e che sono state ritrovate quando è stato messo all’asta uno dei depositi (gli storage tutti americani, veri e propri "hotel delle cose").

Gli scatti di Vivian Maier e il successo di questa donna morta in povertà senza che nessuno si fosse mai accorto di lei hanno stupito molti. C’è una attrazione quasi ipnotica esercitata soprattutto dalle immagini in bianco e nero (riprese in medio formato 6x6 con delle Rolleiflex e poi con una Leica IIIc e varie altre: Exakta di Ihagee, Contarex di Zeiss, qualcuna delle prime reflex), il gusto della riscoperta di panorami urbani e gente comune che visti con la lente del tempo diventano straordinari (sull’effetto “macchina del tempo” della fotografia ne parla abbondantemente Susan Sontag in uno dei suoi saggi), ma c’è anche qualcosa di più.

Tecnicamente le immagini della Maier sono molto ben fatte: lei era dotata e aveva un esposimetro al posto degli occhi. La maggior parte delle sue immagini sono scatti al volo in strada, giocando con aperture molto serrate per avere più profondità di campo e tempi alti per azzerare il movimento, anche per questo le immagini sono prevalentemente all’ora di pranzo in giorni assolati. Le sue composizioni sono fresche, in ognuna delle immagini scelte per la pubblicazione c’è una piccola storia, un particolare, un abbozzo di narrazione. In parte, come detto, perché sembrano uscite da una macchina del tempo, ma in parte anche perché aveva un occhio genuino per le scene, i bozzetti, i quadri di vita. Immagini pittoresche nel senso migliore della parola (e in mancanza di un equivalente che non faccia riferimento alla pittura ma alla fotografia).

E in parte perché c’è quel bianco e nero - le immagini più celebri sono infatti quelle dell’immediato dopoguerra – che racconta molto anche all’estetica del nostro tempo. Da qualche anno infatti nell’aria del nostro tempo la fotografia è cambiata. Prima l’immagine si era tramutata in selfie, in scatti estemporanei con il telefonino e in costante manipolazione dei colori e delle forme, in ritocchi iper-realistici e surreali al tempo stesso, come l’uso estremo dell’HDR. Adesso c’è il ritorno alla purezza del bianco e nero, alla ricerca dell’originalità della pellicola, alla freschezza del racconto di strada che immortala noialtri esseri umani, fiocchi di neve unici nelle nostre manifestazioni anche temporali.

Il bianco e nero è anche il confine dove la fotografia torna ad essere originale e fedele a se stessa, dato che il video non ha il coraggio di varcare quella soglia. Su Instagram, Pinterest e Facebook i cultori del bianco e nero si moltiplicano e la Leica, quando cinque anni fa ha lanciato l’unica macchina fotografica digitale attualmente sul mercato capace di scattare solo immagini in bianco e nero (Leica M Monochrom) ha incontrato un successo insperato. Il bianco e nero conta e Vivian Maier incarna lo spirito di quell’estetica.

Il successo della fotografa newyorkese, un po’ figlia anche dell’avida speculazione dei suoi curatori postumi, dipende secondo me da questo: genuina, vera, non costruita, ruspante, artigianale e soprattutto in bianco e nero, ultimo confine dell’immagine genuina, vera, ruspante, non manipolata.

Non siamo noi ad aver ritrovato Vivian Maier, insomma, ma è lei che è sempre stata lì, e noi ci siamo riavvicinati solo adesso a quella parte della nostra estetica.

Un’ultima nota sulle immagini. Le stampe esposte in Italia sono di buona qualità ma niente di eccezionale. È strepitosa invece la resa delle immagini scattate, soprattutto la ricchezza dei toni e la definizione dei bianco e nero nei 6x6 scattati con la Rollei. Cioè, sono strepitose se nessuno ha mai visto uno scatto in medio formato fatto con una buona macchina.

La “stranezza” di Vivian Maier l’ha fatta restare fedele al medio formato a lungo, quando molti se non tutti, comprese le grandi riviste di illustrazione (e i primi rotocalchi) viravano con decisione sul piccolo formato (la pellicola 35mm in rapporto 24x36), chiudendoci in uno spazio visivo angusto, ristretto, faticoso. Oggi gli ultimi epigoni del medio formato dicono e ripetono che non è la stessa cosa, che gli scatti fatti su un negativo di sei centimetri per sei centimetri sono unici, straordinari, potenti. Ma neanche gli appassionati di pellicola li ascoltano, li considerano invece una strana tribù sicuramente minoritaria. E fanno male, perché gli scatti su negativo da 2,4 centimetri per 3,6 centimetri, con bordi traforati (è pellicola cinematografica messa per orizzontale, alla fine), non ce la possono fare se non perdendo molto in qualità e ricchezza.

Il successo di Vivian Maier sta anche qui, secondo me. La Maier, con grande economia di gesti, ha fatto immagini ricchissime e potenti. E noi la interpretiamo non solo per il bianco e nero (che conserva ed esalta l’immagine, oltre a perdonare molte ingenuità dello scatto in fase di stampa) ma anche per il respiro, la luce e la profondità dei suoi scatti. Noi, popolo di nani prigionieri di formati di dimensioni piccole e piccolissime soprattutto nel digitale (che droghiamo di pixel ma che in realtà ha piattezza straordinaria), non siamo più abituati a vedere la magnificenza che il medio formato è stato in grado di regalare a due generazioni di fotografi e osservatori. È un peccato, e uno dei motivi per cui secondo me Vivian Maier ci stupisce tanto.

(Spazio Forma Meravigli, Milano, fino al 31 gennaio 2016)

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