18.9.05

C'è tutto un mondo intorno...

LA DOMENICA A San Francisco offre una serie ampia di possibilità. Nel mio piccolo, mi sono costruito un'agenda di cose che amo fare, anche perché questa è l'unica città che mi faccia spuntare il sorriso mentre cammino per le sue strade. Il primo passaggio è oramai diventato obbligato: l'angolino della colazione. Quest'oggi, caffé nero, succo di arancia e uova alla benedict con patatine della casa. Non c'è male per colazione, soprattutto perché ieri sera sono crollato alle sette e ho dormito sino alle cinque di stamani (orario della costa occidentale) e quindi è un po' un mix di cena e pranzo.

Sedici dollari, diciotto e mezzo con la mancia. Ma l'atmosfera da tavola calda di Happy Days dove la vogliamo mettere? Da notare che è proprio accanto al vecchio King George Hotel, dove ho passato due settimane d'incanto, ormai un anno e qualche settimana fa. Collegandosi a questo, visto che siamo dietro a Union Square, una rapida arrampicata e si arriva su Nob Hill, la collinetta dove mi rannicchio ogni volta. Lì è necessaria la colonna sonora adeguata, e per questo tengo sempre sull'iPod (shuffle, in questo caso) la canzone triste dei Matia Bazar "C'è tutto un mondo intorno", di cui riporto con piacere le prime due strofe per chi non la conoscesse:

Se per caso un giorno o l'altro
Ti trovassi solo sai
Senza una compagna che poi ti aiuta nei tuoi guai
E se poi il cielo blu
Si chiude all'improvviso su di te
E ti senti come un ladro che
Ha paura anche di sé
Guardati allo specchio
E guarda un poco un poco intorno a te

C'è tutto un mondo intorno che
Gira ogni giorno e che
Fermare non potrai
E viva viva il mondo
Tu non girargli intorno
Ma entra dentro al mondo dai

Se nel buio che ti avvolge
Una fiamma scorgerai
Corri corri senza indugi
Forse è il sole che tu vuoi
Ma se come un fiume in piena poi
Il tempo ormai usato se ne va
Ed un naufrago ti senti tu
Che da solo scruta il blu
Quella fiamma sconosciuta
è la tua zattera lo sai


In pratica, mi sono promesso un po' di tempo fa che sarebbe stata la mia canzone triste e che l'avrei ascoltata nel giardino di quella piazza, la mattina verso le sette, quando ci sono solo un po' di strambi americani che fanno un mix di aerobica e reiki. In particolare, nel momento in cui bisogna fissare il blu alla ricerca di una fiamma che diventi zattera, mi perdo tra i palazzi dei signori della transcontinentale, quei Mark Hopkins, James Fair, John Mckay e William O'Brien che rubacchiando a destra e manca fecero congiungere nell'Ottocento le due coste del Paese con la ferrovia, e con sforzo occhieggio la baia e il blu assoluto del suo cielo.

La collina è a dire il vero proprio particolare e regala una bella vista su alberghi storici. Soprattutto il Mark Hopkins Inter-Continental, dalla cui sommità si può andare a perder tempo nel Top of the Mark, il bar più alto di San Francisco in cui si accommiatavano dall'America i militari in partenza per la guerra del Pacifico. Stasera o domani ci vado. Anche il giardino, accanto al club per soli uomini The Pacific-Union Club, sorge sulle rovine del palazzo di Collis P. Huntington, bruciato nel '906.

Invece, introducendo un passaggio nuovo nella consolidata routine, sono entrato nella Grace Cathedral, che è una copia di Notre Dame di Parigi (dove per una buffa coincidenza avrei dovuto essere oggi, dato che lì si tiene dopodomani l'Apple Expo 2005). Mai entrato in un luogo di culto statunitense prima, e forse ho cominciato da uno dei più atipici, visto che l'appartenenza all'evangelismo e comunque stemperata in una koiné di altri credo e fedi. E' un po' la cattedrale anche spirituale di San Francisco, come un monumento alla ricerca della spiritualità. Di fronte, d'angolo, il memorial per i massoni morti nella Seconda Guerra mondiale. Da noi sarebbe un problema, negli Usa è un triangolo e un compasso sul verso delle banconote.

Il club, la piazza, la cattedrale, gli alberghi e i lunghi condomini di appartamenti stile New York. Ci sono una serie di istantanee che pensavo - anni addietro - avrei potuto raccogliere solo con la macchina fotografica e che, invece, mi rendo conto sia possibile raccontare solo con la penna. E, aggiungerei, per poche e selezionate persone, che abbiano desiderio di condividere appunti di viaggio microscopici e ricordi molto personali. Come il rumore delle auto americane, quei grossi scatoloni a benzina col cambio automatico, quando accelerano ai semafori. Da noi finirebbero dopo dieci minuti dal meccanico a ritarare l'iniezione. Qui invece il guidatore sorride estasiato dal "vroooom" che esce fuori dal suo cofano. Adesso vado a cercare nuove spigolature e qualche libro da Citylights. Au revoire.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

dopo questo post, da semplice lettore sono diventato fan sfegatato del tuo blog :)
pur avendola soltanto "sfiorata" un paio d'anni fa, amo san francisco, e ritrovare le sensazioni provate allora, vivendoci per una sola settimana fa davvero piacere.

Anonimo ha detto...

Ma non è mica una canzone triste, quella dei MB.

Antonio ha detto...

A dire il vero, per me si... Che la tristezza non sia nell'ugola di chi canta ma nel timpano di chi ascolta?