5.3.06

Magari sarà il disinfettante, che lentamente corrode le sinapsi

SE NON AVESSI amato il viaggio di per sé, non avrei chiamato questo blog Il Posto di Antonio. Me lo ripetevo qualche giorno fa, mentre il treno stava uscendo dalla stazione di Milano. Un "posto" è l'ancoraggio perfetto, un dove a cui ritornare, un quando che diventa familiare anche quando non c'è. E' lì, è un posto, spesso molto meglio di niente.

Il treno andava a Torino, era mattina e c'erano le nuvole. Neanche tante, quanto basta per rimpiangere contemporaneamente la pioggia e il sole. Si esce dalla volta centrale della galleria sontuosa della stazione Centrale e sembra di entrare in un tunnel. Ma, dopo aver costeggiato in un'infinita curva strade e case di Milano che dopo sei anni cerco ancora di far finta di aver capito dove siano, ci si raddrizza e l'Eurostar post-moderno, il treno di punta di Trenitalia, si incammina verso Novara. E poi, come in una pubblicità degli anni Trenta, ci sarà addirittura "la folle corsa verso Torino".

La mia compagna di viaggio non ha ancora voglia di parlare o forse sì. Cominciano a ragionare con i due che la lotteria dei posti prenotati ha deciso dovessero essere i nostri vicini: marito e moglie poco più che quarantenni, americani in gita di piacere e business per l'Italia: Malpensa, Milano, Torino, Pisa, Venezia e poi di nuovo Milano e Malpensa. Tutto in una settimana, nella migliore tradizione di chi guarda il display del suo Blackberry anziché il panorama fuori dal finestrino.

Già, il panorama. La cosa bella dell'Eurostar non è certo il suo odore: usano un disinfettante che non ha avversari nella categoria dei sottili e penetranti fastidi della vita. Sono le finestre, invece. Le chiamo così perché sono ampie, luminose, fin troppo per un paese del Sud Europa, dove d'estate il sole ti spacca in quattro e d'inverno la covezione congelerebbe anche un merluzzo in fuga dal Baltico. Però, signora mia, che visione, che goduria!

Ci arrampichiamo sugli specchi - la mia compagna di viaggio è titolare ancora per un po' di una Green card e io, beh, voi mi conoscete, no? Se sono americani non mi contengo e ciarlo felice come una ragazzina di ritorno al paesiello - tutto regolare, insomma, fino a un certo punto. Magari sarà il disinfettante che lentamente corrode le sinapsi, forse la vibrazione di fondo che in tutto l'universo si distende ma che per uno strano mistero della fisica negli Eurostar invece si raggruma, insomma a un certo punto vado via. Così, semplicemente.

Stavo guardando un attimo fuori dal finestrino, credo per evitare di inciampare sul decoltè della perfetta Barbie middle-class che mi sta davanti, la bionda signora della Pennsylvania (ma nata ad Atlanta, nel pieno della calda Georgia) il cui marito ha lasciato il Blackberry e cominciato a russare rumoroso, quando le luci si abbassano, l'odore si fa più acuto, i passeggeri sfumano e fuori torna la notte.

E' lo stesso treno di sei anni prima, forse sette. Solo che da Milano sta rotolando verso Firenze. C'è un muro di buio fuori, si sente anche attraverso il cristallo temperato che lo proietta. L'avevo detto, no? Ma a me non interessa: mi sto chiedendo cosa sto facendo. O meglio, che cosa farò. Torno da una visita importante, ho scoperto che potrei trasferirmi a Milano, lasciare Firenze, i miei amici, la mia ragazza, persino la mia console preferita dei videogiochi, la radio dove lavoro, il giornale per cui scrivo. Perché?

L'ombra del treno è veramente fitta, aumentata dal fatto che siamo veramente pochi. Abbiamo passato da poco Bologna. L'unica distrazione è stata una sensazione di fastidio: lei era seduta parallela a me, nell'altra fila di là da quella voragine insuperabile che è il corridoio centrale. L'avevo guardata prima io, per un po', pensando che fosse magari un po' magra ma decisamente una bella e giovane bionda. Poi, immerso nelle mie ansie per niente metafisiche, a dire il vero l'avevo persa un po' nel fuoco dei miei pensieri: un'immagine destinata a scomparire come casualmente era apparsa. Ma lei mi riguarda. Lo sento e piano mi giro per verificarlo: è così. Da - sarà stata Piacenza? - non mi stacca gli occhi di dosso. Per la mia generazione è un problema: che ci hai da guarda'?

Cominciamo a parlare, lei all'improvviso sembrava non aspettasse altro e valica il corridoio: si siede di faccia a me, addirittura nel senso contrario in cui viaggia il treno. Pensa a tutto lei: mi parla, mi sorride, si sistema, è lei che risolve il problema dicendo (o forse me lo immagino io) che ci conosciamo, anche se non è vero. Nei romanzi il preludio al sesso consumato di sfuggita magari nella toilette del siluro di Trenitalia sarebbe introdotto da qualcosa del tipo: "Lo disse sapendo che non era vero. E sapendo che lo sapevo anche io". A dire il vero, io passo venti minuti col cervello impallato. Lei parla e io mi chiedo disperatamente dov'è che ci siamo conosciuti. Ma non mi viene in mente niente, porca miseria. Alla conclusione che non mi conoscesse so che ci arriverò giorni dopo, ma ancora oggi non sono del tutto convinto. Comunque...

Ci scambiamo anche i numeri di telefono, lei alla fine mi dice che la sua è una vita davvero ricca: ex di Non è la Rai, amica-amica-amica di questa o di quell'altra che poi erano quelle famose, è un pochino famosa anche lei. Soprattutto, è lì: pendolare tra Roma e Milano, tra Milano e Roma. Il suo agente (ragazzi: ha un agente!) le ha fatto fare un-non-so-che-cosa a Milano e adesso ritorna a Roma, da romana che preferisce stare a Roma. Come tutte le romane?

Un accidente cromosomico di trent'anni prima, una storia abbastanza comune di X e di Y, mi ha imposto precisi ruoli sociali. Le sorrido e la conforto, la faccio parlare e ne lodo le capacità, facendo balenare ipotesi sfumate che, beh, faccio il giornalista, piccola, sai com'è. Saranno quaranta minuti? Forse quarantacinque da quando si erano chiuse le porte a Bologna che già Firenze è in dirittura d'arrivo. Il lungo dirizzone dopo le ultime colline dell'Appennino. Passano Prato, Calenzano, Castello, Rifredi. Magari e non necessariamente in quest'ordine, per quel poco che mi posso ricordare, ma comunque sono tutte lì, allineate nella piana. In dieci minuti sto già accendendomi una sigaretta sul marciapiede del binario dieci, la borsa sulla spalla, e cammino verso la testa della stazione. A dire il vero, non ricordo se facesse caldo o freddo, neanche se pioveva. Era buio, però, su questo sono preparato.

Ci pensa la voce del capotreno a richiamarmi sull'altro Eurostar, quello che procede senza soluzione di continuità verso Torino, la città dove si stanno consumando in quelle ore le Olimpiadi invernali del 2006: "Signore e signori, ho il piacere di annunciarvi che in questo momento... stiamo viaggiano a più di trecento chilometri all'ora". La voce è velata da un'emozione che per un attimo appare quasi preoccupante. Saranno buoni i freni? Non è che mi si distrae il macchinista sul più bello e mi "brucia" un semaforo? La Barbie dagli occhi cerulei è in tranche dentro la sua rivista, il marito ha ripreso ha controllare lo stato di salute di Internet col piccolo display a colori affogato nelle sue mani da pilone di rugby, la mia compagna di viaggio sta traversando i meandri di un giorno e una notte del lavorio di menti brillanti di via Solferino: sfoglia il Corriere della Sera. Sono solo.

Mentre assaporo l'emozione dell'alta velocità che magnifica e progressiva ci trasporta verso Porta Nuova, un gioco di correnti allontana per un attimo la pervasiva tortura del disinfettante e permette a un paio di sinapsi di scattare con l'altra idea legata a quel viaggio verso Firenze. E' stata lei, mi ricordo, che mi ha fatto decidere: a una vita di routine tra Palazzo Vecchio e via Martelli, tra una conferenza stampa e una serata al cinema di Sesto Fiorentino, avevo scelto l'avventura. Volevo spostarmi, abitare altrove, provare altre strade, e che diavolo! Volevo andare in un altro Posto, metterci una bandierina e da lì cominciare a viaggiare. Un passo insignificante per l'umanità, un cambiamento epocale per il sottoscritto.

C'è qualcosa che ancora non torna, però. Perché? Perché proprio adesso? Sarà stato l'odore del disinfettante? Abbandono il decoltè con un sospiro e mi volto verso la finestra. All'improvviso, il perché è lì, davanti ai miei occhi. Sotto forma di una muraglia discontinua di barriere antirumore in cemento. Alcune grigie, altre con stralunati colori pastello. E' come viaggiare in un tubo, fasciati dalle norme ambientali incarnate, con quello spicchio di cielo nuvoloso e basso che sarebbe meglio non si riuscisse ad intravedere. Addio panorama, immolato sull'altare della performance suprema. Sei diventato buio, come quella sera di sei anni fa.

1 commento:

Anonimo ha detto...

da wikipedia:È la struttura che permette la trasmissione di segnali tra due neuroni, tra un neurone e una fibra muscolare o tra un recettore e un neurone. Vi sono sinapsi chimiche e sinapsi elettriche.

Una sinapsi chimica è formata da tre elementi: membrana presinaptica, spazio sinaptico e membrana post sinaptica. La membrana presinaptica è quella parte del neurone portatore del messaggio che rilascia il neurotrasmettitore nello spazio sinaptico. Qui viene assorbito dalla membrana postsinaptica. Il neurotrasmettitore in eccesso viene riassorbito nella membrana presinaptica (ricaptazione), o scisso in parti inerti da un'apposito amminoacido.

Esistono tre tipi di sinapsi: asso-dentritiche, asso-assoniche, asso-somatiche. La prima identifica una sinapsi che unisce l'assone del neurone portatore del messaggio ad un dendrite di un altro neurone; la seconda è una sinapsi che indice su un altro assone (questo tipo di sinapse porta l'inibizione o l'eccitazione nel neurone che riceve il neurotrasmettitore); la terza è una sinapsi tra l'assone e il nucleo di una cellula neurale (soma).
avevi ben tre sinapsi da sciegliere
per fortuna hai scelto l'avventura, bel racconto,stammi bene