16.4.07

Wen

LEI SI CHIAMAVA Wen, era una delle ragazze che nel tempo hanno lavorato al bar dove tutte le mattine vado a fare colazione, quando sono a casa mia a Milano, proprio in piena Chinatown.

Aveva scelto come nome italiano Chiara (è tradizione della diaspora cinese prendere un nuovo nome di battesimo nella lingua del posto dove si sono trasferiti), era fidanzata con un ragazzo sardo, poi si sono lasciati - per un periodo la coda per prendere il caffé era diventata davvero fastidiosa - e poi ne deve aver trovato un altro (li ho visti una volta, credo, all'altro capo di via Paolo Sarpi camminare in cerca di qualcosa tra i negozi) perché ha mollato tutto e qui nel quartiere non se ne hanno più notizie.

Wen era un ragazza davvero carina, dall'età indefinibile (poi, nel 2006, mi disse una volta che erano 31 anni) e con gli occhi di una gatta, lunghi e grandi. Aveva imparato decisamente bene l'italiano, nonostante fosse venuta nel nostro paese da un paio d'anni. La sorella maggiore era in Sicilia, a lavorare. Lei aveva trovato un appartamento - praticamente fuori Milano - con altre due o tre ragazze gestito da un affitta-camere sempre cinese. Si sciroppava un discreto viaggio tra bus e torpedoni vari per arrivare al bar, dove faceva peraltro un turno centrale nella giornata. Quando faceva tardi l'ho vista sulla macchina di Mario, il proprietario (che parlava italiano molto peggio, pur essendo arrivato in Italia dalla Cina del sud ,vent'anni fa) mentre la riaccompagnava a casa, secondo me attirandosi l'antipatia decisa di Elena, la moglie (sempre cinese, molto bella e sempre scarsa in italiano) di Mario.

Già, perché la caratteristica di Wen era quella di essere antipatica. Soprattutto alle donne. Forse perché veniva fuori che era molto simpatica agli uomini. E poi, parlando benino l'italiano, attirava davvero delle belle file di clienti: in cerca di caffè, di una ragazza esotica e - perché no - anche di una moglie più tradizionale e meno difficile da gestre delle sue coetanee italiane.

Il fatto è che Wen era di Pechino - o Beijing, come si dovrebbe dire - e parlava un cinese diverso da quello di tutti gli altri qui intorno. E la cosa non contribuiva a renderla simpatica, anche perché l'accento della capitale è lezioso e dicono un po' anche odioso, dato che "suona" forse di potere o di soprusi, o magari di centro in una terra che è invece un'infinita provincia. Il padre di Wen, se non ricordo male, era medico. E aveva più di sei figli, alla faccia delle leggi per la famiglia mono-pupo in vigore nella campagna. E poi Wen l'italiano lo studiava, voleva fare conversazione - migliorando sia la pronuncia che le chances di passare in rassegna i possibili candidati nostrani - e sapeva anche spiegarti qualcosa che gli altri cinesi non ti sanno spiegare, cioè le regole della loro lingua. In questo, sembrava più "normale", perché c'erano non solo la possibilità di pensare che fossimo tutti studentelli di un Erasmus un po' più allargato, ma anche di parlare con persone che comunicano con una lingua aliena, priva di tratti comuni. Provateci voi a farvi capire a gesti e verbi all'infinito quando l'interlocutore gesticola tutto in un'altra maniera e non ha radici verbali comuni.

Poi Wen se n'è andata. La mia vicina di casa, quando ancora ci parlavamo, l'avrebbe definita una "pericolosa, che ti vuole sposare per sistemarsi". Ne conosco di ragazzi che magari hanno anche un lavoro fisso e vorrebbero sposarsi e sistemarsi con una donna che abbia le due qualità tribali fondamentali: sia servizievole e carina (fedele in Italia lo si tende a dare per scontato, visto le sanzioni sociali che ancora persistono verso le donne in questo settore). Lei magari avrà trovato il suo buon partito e appeso il cappellino all'attaccapanni di qualcuno, oppure sarà stato solo un passaggio del suo viaggio.

Anche questa apparente chiave di lettura spiega perché non piacesse agli altri: pericolosa, gattamorta e sorniona, oltretutto pronta a rinnegare la famiglia e i vincoli etnico-culturali sposando un balbuziente (cioè un barbaro, come dicevano i romani degli stranieri che non sapevano parlare fluidamente la lingua latina). La determinazione e l'ambizione a me hanno sempre fatto pensare alla disperazione che ci può essere dietro, e al peso psicologico che molti pagano per tenere insieme pezzi così diversi.

Ma sono miei pensieri, di quelli che vengono quando, parafrasando la pietra che gli altri adorano e che quindi noi dovremmo almeno rispettare, mi chiedo se sia lecito giudicare la felicità e le forme varie e talvolta improbabili con le quali si può manifestare.

Chissà dov'è adesso, Wen. Chissà quanto interessa ai cameramen che anche stamani girano a fare interviste o immagini su e giù per Chinatown. Soprattutto, chissà quando questi ultimi si leveranno dai piedi e lasceranno campo libero a chi ci vive, ci lavora e ci prende il caffè.

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