24.6.07

E' la linguistica, mon amour. Ovvero: dimmi come parli e ti dirò se innovi...

TERZA E ULTIMA cosa da tirare fuori, poi vado a mettere la borsa del ghiaccio sul cranio febbricitante e mi mangio lo spaghettino allo scoglio della domenica sera. E' un concetto abbastanza rapido: c'è qualche relazione tra la lingua che un popolo parla e la sua capacità di innovare? E se c'è, può darsi che nel tempo evolva? (Questa seconda cosa ha una coloritura consolatoria per noialtri italiani, che ci piace pensarci alquanto innovativi perlomeno nel passato).

Premesso che sto iniziando a chiedermi di che diavolo si parla quando si parla di innovazione (che, secondo il boss di Ibm Italia, è cosa diversa dall'invenzione, nel senso che l'invenzione è il lavoro solitario di uno, mentre l'innovazione è un fenomeno sociale che riguarda le masse: anche su questo si potrebbe discutere non poco, così come sul rapporto tra "invenzione" e "scoperta" e sulla capacità di "inventare" o "scoprire" o "innovare" utilizzando o non utilizzando le precedenti conquiste di chi è venuto prima di noi: ad esempio nel computer c'è il lavoro di quanti hanno fatto milioni di invenzioni diverse, tra le quali - perché no - anche la macchina per scrivere. Sul punto si può anche aggiungere che tante invenzioni-innovazioni-scoperte avvengono più o meno contemporaneamente [vedi Guglielmo Marconi e Alexandr Stepanovich Popov, oppure Meucci, Bell e qualche altro contemporaneo] perché il punto di partenza - cioè le invenzioni-innovazioni-scoperte precedenti - contano eccome), il discorso qui è articolato più o meno così.

L'inglese è una lingua straordinariamente duttile e "ricettiva". Ha facilità a inglobare parole e concetti appartenenti ad altre culture oppure a stampare neologismi. Le persone che la parlano come lingua principale hanno probabilmente altrettanta flessibilità (anche se gli americani in particolare parrebbero essere al nadir di un popolo aperto dal punto di vista culturale, se non altro visto l'isolamento continentale nel quale vive la maggioranza di quelle genti). Saltando a piè pari la linguistica e i suoi campioni (a me Chomski stava già antipatico prima di scoprire che ha dato pure fondamentali contributi agli studiosi di linguaggi di programmazione e di intelligenza artificiale, pensi un po', signora mia), l'idea di fondo è approfondire un effetto specifico di una teoria. La teoria è che la lingua che parliamo ci formi, mentalmente e non solo. Se la lingua ci "forma" (lo uso nel senso letterale) - e per fare esempi si può ricorrere agli stereotipi più triti tipo che i tedeschi sono razionali e ordinati perché hanno una lingua che è razionale e ordinata, perlomeno sulla carta - allora si potrebbe anche pensare che ci siano lingue che sono più adatte ad innovare di altre.

Qualsiasi cosa sia questa benedetta innovazione alla quale molti di noi danno la caccia - anche a costo di mutare la natura delle cose in maniera radicale e tale da dare nuovo senso e profondità al termine "snaturare" - avrà pure dei suoi specifici attributi. Mettiamo che fra questi attributi - sempre per banalizzare - ci sia l'idea di "apertura" nel senso di capacità di impadronirsi rapidamente di concetti nuovi. Mettiamo che questi siano più presenti in alcune lingue (peraltro più primitive di altre) come l'inglese e - perché no - il giapponese. E mettiamo quindi che, al di là degli accidenti della storia e delle dominazioni politiche, economiche e militari (e poi la cronologia sarebbe tutta da ricostruire sulla base di questa ipotesi) in realtà questi popoli che parlano queste lingue abbiano una marcia in più quando si tratta di innovare perché quella particolare struttura linguistica ha formato la loro mente in maniera più adatta e ricettiva all'uopo. Che ne dite? Vi suona? Io intanto mi vado a fare lo spaghettino e stappo pure una Budweiser. Per oggi, quel che potevo dare l'ho dato...

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