26.9.08

Surmodernité

STASERA NE ACCENNAVO dopo cena a Luca: ho vissuto per otto anni in dei non-luoghi; aeroporti, stazioni ferroviarie, centri congressi, hotel, ristoranti, centri commerciali. Prevalentemente negli Usa ma anche tra Francia, Spagna, Gran Bretagna e Germania.

Lo dicevo indicando la sede del Sole-24 Ore, e osservando che adesso, andando tutti i giorni al lavoro in quel posto, non è poi tanto diverso da una costante passeggiata nei consueti non-luoghi a giro per il mondo. Luca osservava invece che il complesso di edifici progettati dall'architetto ligure non è un non-luogo, perché ci si riconoscono segni e tracce di Renzo Piano, cosa che lo rende luogo, lo materializza.

È vero, profondamente vero. Però è anche vero che tutti i non-luoghi che ho visitato sono ciascuno a modo suo anche speciali e caratteristici. Che portano cioè i segni particolari di culture e tribalità congelate all'interno di un concetto superiore. Ovverosia il concetto che nel non-luogo l'individuo perda la sua unicità, si spersonalizzi e diventi qualcosa di diverso. Qualcosa da gestire e controllare.

Ops, non mi fraintendete: mi riferisco alla struttura architettonica del complesso di edifici, non a quella sociale del luogo di lavoro. Malfidati e maliziosi che non siete altro...

1 commento:

Anonimo ha detto...

Penso che Marc Augé, con il suo "Non luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità" uscito più o meno una quindicina di anni fa, abbia rappresentato una tappa basilare nel susseguirsi di riflessioni sull'identità della dimensione dell'abitare moderno.
Penso anche che occorra stare attenti.
Non-luogo a mio avviso potrebbe essere definito un qualsiasi spazio non riconosciuto da una percezione - non esclusivamente collettiva - come "proprio", in base a criteri culturali, funzionali, emotivi. Dunque non solo le strutture di transito, ma volendo anche il quotidiano posto di lavoro (appunto). Questa percezione non deriva unicamente dall'assenza di una distintiva tradizione culturale correlata al "genius loci" (nell'accezione di Norberg Schulz per intenderci), dalla immaterialità che quella tipologia costruttiva ci trasmette, o dall'eventuale fuori scala dell'ambiente in cui ci troviamo - architettonico o urbano che sia - che magari neppure corrisponde alle esigenze funzionali delle attività che vi devono essere svolte e che ci inghiotte rendendoci indistinti. Quella percezione può essere correlata a fattori anche non unicamente appartenenti ad una dimensione architetturale (anche se per formazione professionale questo sarebbe poi l'aspetto che maggiormente mi interesserebbe approfondire), ma semplicemente ad un piano più "emotivo": se da un lato la progettazione di uno spazio deve sempre prevedere la possibilità di potervi far maturare una dimensione relazionale (ed è vero: non sempre così accade), dall'altro molto dipende dal grado di forza di interrelazione che abbiamo con gli altri e con l'esterno a noi. Si potrebbe (non per questo banalizzando) dire che quattro ragazzini e una carta accartocciata possono vivere lo spazio impersonale di un parcheggio di periferia come un campo di calcetto, o che un qualcuno possa trovare un posto nell'etere telematico indistinto e renderlo Posto ammobiliandolo con una certa sensibile comunicabilità.
Oltre a questo c'è tutto il discorso della stratificazione storica, perché spesso solo con il vissuto di anni si riesce ad appropriarsi veramente di un nuovo spazio ad esempio urbano rendendolo magari "piazza" o "monumento" (nel senso di "memoria").
E poi c'è tutto l'altro discorso della perdita di identità ed unicità quando ci troviamo in un ambiente che oggettivamente è anche tendenzialmente estraniante, ma che spesso fa forza anche sulla saldezza di identità che noi abbiamo di noi stessi. Insomma ce ne sarebbero di sfaccettature e punti di vista su questo argomento; esterno che apprezzerei ulteriori approfondimenti, altrui: io mi "perdo" persino davanti al pezzo di mare su cui affaccia casa mia, figuriamoci.
c.j.