13.8.11

C'è una app per tutto

COSA SONO LE app, in realtà? Da dove vengono fuori? A cosa servono? Sono un po' come i podcast, cioè una distribuzione e gestione automatizzata degli mp3? Una volta ho provato a raccontare la storia dell'App Store di Apple partendo da un po' più lontano.

In principio fu il widget. Un pugno di codice javascript e html che doveva rispondere al fallimento dei micro-siti wap per i già vetusti cellulari Gsm. I widget erano delle applet, delle mini-applicazioni, capaci di fare una cosa sola o poco più: estrarre i dati da un sito web e mostrarli in modo più efficace sullo schermo bonsai del cellulare.

Era il 2000, sembra la preistoria. Dieci anni dopo le app dominano il nuovo mondo dei telefoni intelligenti. Al mondo esistono più di tre quarti di milione di app su diverse piattaforme, per un valore complessivo di 2,2 miliardi di dollari nel 2010, in netta crescita rispetto ai 1,7 miliardi dell’anno prima.

Non tutte le apps sono create uguali. Il termine stesso è ambiguo: è l’abbreviazione di “applicazione” ma si usa solo per il software scaricabile su telefono cellulare e, da pochi mesi, anche tablet evoluto. Le app possono essere scaricate da siti web, attraverso piattaforme proprietarie, da negozi indipendenti. Nella prima metà della vita di questo mercato, circa dal 2000 al 2006, le app erano fornite direttamente dai siti degli sviluppatori o da portali indipendenti. Bisognava sempre passare dal Pc, ma siti web come Handango (nato nel 2000 oggi con 190mila apps), GetJar (2004, con 68mila app) e MobileRated (2006, con 55mila app) contano insieme per più di un miliardo e mezzo di download complessivi. Hanno servito con onore piattaforme come Palm, Symbian, Java, Windows CE, addirittura Brew, Epoc e altre adesso dimenticate.

Poi Steve Jobs, dopo aver presentato a gennaio del 2007 l’iPhone con solo 11 applicazioni immodificabili e aver sostenuto che per il resto bastasse il web, a luglio del 2008 ha clonato la struttura dell’iTunes store (quello su cui si vende musica, film e telefilm) anche nel mondo delle applicazioni. Costruendo un sistema blindato: gli sviluppatori devono pagare 79 euro l’anno per sviluppare il software, aderire pienamente alle linee guida tecniche e anche di contenuto, sottoporre ad approvazione il loro lavoro e finalmente vederlo pubblicato e gestito grazie all’infrastruttura e al sistema di pagamento di Apple. Il successo è stato immane.

È diventata la storia dell’uovo e della gallina capire se è stato l’App Store a consolidare definitivamente il successo di iPhone o viceversa. Fatto sta che le 300mila app fiorite nel negozio di Apple in poco meno di 30 mesi sono state scaricate 7 miliardi di volte. I prezzi medi sono inferiori ai due euro, mentre due terzi delle app sono gratuite.

Apple si è talmente convinta della bontà di questo modello di business che ha deciso di sfruttarlo, accanto al sistema tradizionale, anche per Mac OS X. A partire dal 6 gennaio prossimo, aprirà infatti Mac App Store.

I punti di forza: sistema di pagamento e distribuzione semplificati, gestione degli aggiornamenti centralizzata, struttura a negozio con raccomandazioni e segnalazioni “social”. I limiti: la chiusura. Si installa solo quel che Apple ha prima approvato. I vantaggi per gli sviluppatori, soprattutto i più piccoli, sono però l’abbattimento dei costi di distribuzione e dei sistemi di pagamento. Il modello piace e si diffonde. Sony vende software in questo modo per Playstation Portable, mentre Microsoft lo fa su Xbox 360. Il sistema ci si è accorti che piace, tanto che tutti i grandi produttori di telefoni cellulari si sono costruiti il loro negozio digitale: da Nokia con Ovi su Symbian a Research In Motion per Blackberry fino ancora a Microsoft per Windows Phone. Per tutti, prezzi bassi e una valanga di app gratis.

Tra i tanti, dell’importanza del negozio digitale se n’è accorta soprattutto Google, che ha tratto ispirazione per sviluppare due modelli paralleli. Da un lato, un negozio “tradizionale” per Android, senza barriere di entrata né vincoli di approvazione: si compra, si scarica, si usa. Dall’altro, un negozio “all-in-the-cloud” per Chrome OS, che consente di acquistare e scaricare non sul Pc ma nella propria porzione di nuvoletta: le apps saranno poi raggiungibili nel browser da ovunque ci si connetta.

Insomma, i telefoni cellulari di oggi, gli apparecchi dell’era post-Pc, stanno insegnando anche ai “vecchi” personal computer come gestire il software, le relazioni con gli sviluppatori e i consumatori, la determinazione del prezzo. Ma non è finita qui.

Le dimensioni necessariamente ridotte delle app, la relativa facilità nel programmarle (spesso basta una sola persona) il prezzo basso e la facilità nel distribuirle, hanno creato un mercato fatto di tanti Davide, in cui anche i Golia si sono dovuti adattare alle nuove logiche. Le app hanno uno stile diverso, più casual, più snack. Dopotutto, se usare i nuovi apparecchi touch vuol dire mangiare a mani nude anziché con le posate di mouse e tastiera fisica, anche il consumo del software acquista caratteristiche diverse.

Si chiedono perciò meno funzioni e più contesto: bussola, Gps, giroscopi e accelerometro rendono il telefono “consapevole” dell’ambiente. Così, le app servono per giocare, per leggere libri “aumentati” e interattivi, per avere servizi dai propri fornitori (la compagnia aerea, i treni, il supermercato), o addirittura per correggere il daltonismo.

In una pubblicità dicevano: "C’è un’app per tutto". Forse no, ma ci manca poco.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Tutto molto bello il mondo delle app. Peccato che per chi usa i dispositivi informatici per qualcosa di più che ca--eggiare almeno il 90% delle app siano assolutamente insulse e inutili, per non parlare della valanga di giochi vari...
Insomma, il modello distributivo è vincente però c'è stato un appiattimento verso il basso delle applicazioni.