24.1.16

Palermo Shooting (2008)

LA MORTE VIVE e ama la fotografia. Ed ha anche opinioni sul rapporto tra analogico e digitale, “un invito aperto a ogni manipolazione”.

Nel 2008 è uscito Palermo Shooting, film di Wim Wenders che mescola tedesco e inglese con un goccio di italiano. Vederlo in lingua originale permette di seguirlo (la seconda parte, ambientata a Palermo, è tutta in inglese) ma per certo qualcosa si perde se non si conosce il tedesco.
È un film singolare, minore a dir poco. È la storia di Finn, fotografo di successo tedesco che cerca di ridare un senso alla propria vita, perché si sente perduto.

Interpretato da un discutibile Campino (una sorta di rock star punk tedesca, originariamente si chiamava Andreas Frege, ed è il leader dei Die Toten Hosen) e da una Giovanna Mezzogiorno sottotono, il film ha un effetto irreale. Sembra un film amatorial, con una regia pulita ma non convincente, con una storia in qualche modo avvitata su se stessa. Finn sogna, e i suoi sogni avvengono perché si addormenta un po’ da tutte le parti (soprattutto per la strada) neanche fosse narcolettico. Insegue la morte dopo che questa ha inseguito lui, ma in realtà tutto avviene per caso e in modo svincolato dalla sua vita “vuota”.

C’è Dennis Hopper (interpreta la Morte) in una delle sue ultime apparizioni. Il viso è quello di un vecchio. E poi ci sono i camei di un po’ di amici di Wenders: Milla Jovovich, Peter Lindbergh, Lou Reed, Letizia Battaglia (che parla serenamente in italiano).

Non è un brutto film, anzi. La migliore chiave di lettura forse è che si tratta di un grande omaggio alla fotografia e ai fotografi. E poi Campino vaga per Palermo con una delle macchine più sexy della storia recente della pellicola: una Makina 67 della tedesca Plaubel (realizzata in Giappone). Una macchina medio formato a telemetro che scatta immagini sei per sette e che fa venire voglia di prenderla subito: c’è un relativo culto feticistico per questo apparecchio non eccezionalmente costoso e molto particolare (addirittura è solo la Morte a chiamare la macchina con il suo nome). Ma questa è un’altra storia.

Vale la pena vedere il film? Alla fine sì, aì, anche se non è il capolavoro di Wenders.

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